Ittiturismo: la mia prima volta

da | Dic 7, 2016

Antefatto: conosco Gian Traversa da tutta una vita. Forse perché io e la sua “bambina” eravamo, appunto, fanciulle insieme, forse perché è uno dei pochi pescatori professionisti che abbia mai conosciuto e forse perché nel levante cittadino Gian Traversa assume i toni, spesso e volentieri, di leggenda. Famosa la sua frase mentre annusa l’aria e osserva il mare dalla spiaggia: “Ragassi, se gira di Libeccio, siamo cagati”.

Di anni lui ne ha tanti da avere i baffi bianchi e per mare ci è nato: subacqueo per una vita e pescatore di conseguenza. Quando le anche non lo reggono più bene come un tempo, si inventa un’idea sfruttando gli incentivi regionali: aprire un home restaurant sotto l’egida del progetto ittituristico, molto promosso dalle istituzioni nazionali.

L’ittiturismo permette al pescatore di farsi accompagnare nella pesca (laddove richiesto) e seguire tutta la filiera del pescato: dal guizzo nel mare profondo agli abissi dello stomaco. Di fatto, Gian Traversa è un maestro e io sono qui per imparare.

Così Gian (e l’adorabile Anna, moglie e spalla di origine parmense da tutta la vita dietro al mare di Gian) mi avvisa che ha pescato e che devo andare a provare un esperimento. Eh sì, perché la pesca fatta di gozzi e braccia parla di pesci scartati dalla grande ristorazione in favore del fabbisogno familiare. In poche parole: lo scarto, il pesce piccolo, il pesce difficile, non viene proposto nei menu dove l’alta offerta segue di pari passo l’efficiente sbrigatività nell’esecuzione (sfido chiunque a sfilettare minuscoli pesciolini con l’intento di farne grandi sughi in poco tempo). Ed ecco lì comparire sulla tavola la cena per antonomasia del Pescòu e Famiggia.

Ma torniamo all’esperimento: si tratta di tradurre in termini marini una ricetta tradizionale carnivora, il filetto al pepe verde. Fortunato in questo caso il rundanìn, o castagnola o rondinella in questione, estratto come cavia: pesce d’alto fondale, pescato in giornata (la regola numero uno è monolitica quanto fondamentale: freschezza, genuinità, tradizionale semplicità) che Gian sfiletta con maestria propria solo di chi certe cose le può fare anche a occhi chiusi. Dopo averlo assistito alla cucina, si passa nella veranda adibita ad accoglienza ospiti (molti, conferma, grazie al passa parola) e, inondato di ottimo vino bianco di origine sicula, nell’ordine compaiono sul tavolo:

filetto di triglia marinato agli agrumi con polpette fritte e salsa di pomodoro piccante
la marinatura era talmente perfetta che se fossi stata sola avrei leccato anche il piatto; equilibrata al punto che l’aceto quasi va a scomparire lasciando presenti ma non ingombranti il limone e l’arancia. Una “copertina” di bontà.

gnocchetti al sugo di Muelìn
un pescetto di poche spanne, della famiglia degli squali di profondità, pescato a ben 650 metri di fondale e con una carne tenera e gustosa con un retrogusto di nocciola che fa quasi dimenticare che si tratti di pesce. Ottimi.

– filetto al pepe verde di Rundanìn
equilibrato nei gusti come la tradizione vuole. Ovviamente la panna se in abbondanza involgarisce, ma ricordiamoci che siamo a Genova e dintorni per cui non si esagera mai, neanche nei sorrisi, figuriamoci nei latticini.

– Calamari ripieni in salsa di peperoni
eseguito magistralmente da Anna, confermo di non aver chiesto perdono agli dei per giorni e giorni dopo aver affrontato la salsa ai peperoni quindi assolutamente promosso.

– torta di mele
dove c’è la pasta frolla ci sono, di norma, io che sbavo, con un ripieno che sa più di strudel che di tradizionale apple pie; al primo morso non ho capito più nulla.

Morale della favola: il Gian Traversa oltre ad avere le mani d’oro e la memoria piena di ricordi di mare, mi insegna che in realtà la cucina povera non è assolutamente fatta di pesce di scarto o di pochezza nella materia prima. La cucina di tradizione povera è costruita dalla fantasia, dalla verdura di stagione, dal vento e dalle onde; è puro incanto di arrangiare prelibatezze con quello che si ha che non corrisponde a un esiguo bottino bensì alla sfida di saper inventare, di volta in volta, qualcosa di buono affrontando le lische minuscole, di carni “inesplorate”, di equilibri nei gusti e di sfrontata voglia di osare. La cucina povera, quindi, non è rito bensì innovazione. Tantu pè dì.

Lecardónaie du Pescòu

Recco – salita Suore Maestre Pie,  8
tel. 347 264 4643 – pagina facebook 

Autore

Hira Grossi

Nasce e resta femmina, mamma e giornalista. Da anni si dedica assiduamente alla tradizione enogastronomica del gozzovigliamento hardcore, raggiungendo vette e risultati altissimi. Molti amici chef e sommelier cercano, invano, di insegnarle trucchi del mestiere

Leggi gli articoli correlati

Articoli correlati

Il potere del Miele

Il potere del Miele

Faccio outing. Io il miele lo metto dappertutto. Caramello l'incaramellabile, non compro zucchero da almeno un anno, lo uso anche nel caffè. Curo il raffreddore, calmo i capricci, insomma… mi ritengo un’ottima operaia del grande alveare gastronomico alternativo. Così,...