Calembreweries: 10 nomi di birra fighi. Anzi, molto fighi

da | Mar 5, 2015

Ci fu un tempo in cui le birre si chiamavano mestamente “birra”, e se non ci credete controllate la foto. Erano tempi difficili,  anche se per nostra fortuna la maggior parte di noi o non era ancora nato o pensava di più alla fanta e ai frizzypazzy.

Oggi per fortuna le cose sono cambiate, nonostante tutto, e molti birrai si cimentano nel naming con successo. Non solo. Diverse menti elette hanno deciso di giocare coi nomi delle birre, realizzando magnifici calembour.
Calembreweries, le ha battezzate (con un altro calembour) Pier Paolo Rinaldi, che abbiamo l’onore di ospitare qui in fondo. Rinaldone ha pubblicato diversi libercoli sui limerick, è traduttore, fine umorista nonché papà di Circospetto, l’urban blog di riferimento per Genova.

Ecco i dieci migliori nomi di birre italiane, selezionati per voi dalla banda di #BirraPapilla.


 

1. Czech Norris

La Walker (!) Imperial Pils di Brewfist. In etichetta: bandiera ceca e profilo di Chuck Norris. Calembour quasi perfetto fra uno dei miti di internet e la Repubblica Ceca (czech in inglese), di cui è originario lo stile pilsener.
Importante: quando Chuck Norris ordina una birra, la birra obbedisce.

2. Kiss me Lipsia

La gose del Birrificio del Ducato. Ai profani salterà subito all’occhio il richiamo a Kiss me Licia, chi è addentro alle cose birrarie coglierà il riferimento alla gose, il particolare stile della birra in questione – salata, acidula e aromatizzata con coriandolo – che è tipico proprio di Lipsia.
Curiosità: il primo nome doveva essere “Kiss my Lipsia”, poi a qualcuno a Roncole deve essere venuto in mente di quel giorno di pioggia in cui Andrea e Giuliano incontrano Licia per caso.

3. R.I.P. – Rest in Pils

La pils di Carlo Eugenio Fiorani, “contadino, fornaio e norcino” della bassa cremonese e, se non bastasse, “one-man beerfirm”. Battezza due birre, entrambe agricole e brassate altrove con l’orzo coltivato sotto casa: la Rest in Pils, appunto (prodotta dal Birrificio del Carrobiolo di Monza – che avrebbe bisogno della sua fantasia per i nomi) e la Orzo Mio prodotta a Montegioco.
Anche la Orzo Mio potrebbe a buon merito entrare in questa classifica, per la gioia dei fan degli EeLST.

4. Che belle Gose

Ancora una gose, una collaboration beer fra Croce di Malto, Civale e Montegioco nata per finanziare i progetti dell’Associazione Bambini con la CCAM di Voghera. Uno scopo nobile: è proprio il caso di dire “che belle cose”!
Il geniale copywriter è Riccardo Franzosi.

5. Brett Peat

“Brett Peat Daydream” del Ducato, per la precisione. Blend di tre birre differenti: una a base di malti affumicati, una seconda invecchiata in ex botti di whisky, una terza brettata. Dunque “brett-” (brettanomiceti) “-peat” (la torba con cui si affumicano i malti del whisky).
La pronuncia è la stessa del nome di un noto attore, magari giusto un po’ italianizzata.

6. Mezzasegale

Blonde ale prodotta con massiccio uso di segale per la parte dei cereali. Ancora Riccardino Franzosi di Montegioco, ancora una collaboration (con Beppe Vento di Bi.Du): i due birrai sono disegnati sull’etichetta mentre si affrontano a braccio di ferro. Non si sa questo sfoggio di forza e il mezzasegalismo evocato dal nome siano da collegare.

7. Fuckìn’

Ancora un gioco di parole con la pronuncia inglese, ma stavolta bisogna essere veneti per capirlo. El fachìn è infatti il facchino – il camallo qui da noi – quelli che a Londra chiamano porter: esatto, proprio quei porter da cui prese il nome la birra dei facchini, cioè la porter. E indovinate di che stile è la Fuckìn’…
Il plauso va a Simone Del Cortivo del Birrificio Birrone, padre di questo nettare scuro e del suo nome. Proprio mentre stavamo scrivendo, Simone è stato eletto Birraio dell’Anno 2014: complimenti!

8. Sciliporter

La porter del birrificio Dada. Nome geniale, che purtroppo risente dell’oblio sceso sul suo riferimento, quel Domenico Scilipoti che salvò il governo Berlusconi mollando al momento giusto l’IDV per fondare il gruppo dei “responsabili”. In etichetta, oltre al nostro eroe abbarbicato alla poltrona, echeggia beffardo il richiamo a “bere responsabile”.

9. James Blonde

Blonde Ale di Birra100venti, fresca medagliata a Birra dell’Anno 2015.
Dedicata all’agente segreto più famoso del mondo, in etichetta dichiara “Lievito con polvere da sparo” (tranquilli, mentono) mentre malti e luppoli sono “mescolati, non shakerati”.

10. Mild the gap

“Mind the gap! Mind the gap!”: chi è stato a Londra ben ricorda l’avvertimento prima di salire sulla metropolitana, per non infilare il piede nello spazio fra banchina e vagone. Con il semplice spostamento di una consonante, i ragazzi di MC77 hanno trovato il nome per la loro mild – uno stile inglese tanto raro quanto delizioso.


Calembreweries, un microclima per le freddure

di Pier Paolo Rinaldi

“Chi usa calembour in italiano”, ci avvertiva Giampaolo Dossena, a lungo esploratore di queste terre, “intende gioco di parole, bisticcio” (e un’edizione del dizionario Devoto-Oli se la cava, appunto, con un “freddura, bisticcio”).
La catena Esselunga, all’inizio del millennio, affida una campagna “giovane e fresca” a testimonial in vena di calembour come “Giovanni Verza” e il “Mago Melino”, che proprio dai campi e dai frutteti arrivano a loro. “Médoc, la terre que nous envie la terre entière”, è un altro gioco di parole cui si affida, in quel periodo, la regione francese ricca di vini.
Freddure e bisticci che possono causare effetti ben diversi, da Leyris, traduttore, che prova nausea per questo sacrilegio di fronte al Verbo – a Gauthier, narratore, che vi legge invece “la grazia selvaggia e barocca dell’infanzia” come “l’affascinante goffaggine del barbaro”. Ambienti e (micro)climi – per così dire – diversi, reazioni diverse.

Un “microclima”, scriveva Luigi Veronelli, è “un clima locale caratterizzato dalla presenza di peculiari elementi topografici ed ambientali”. Se, quindi, all’interno di una regione, una sotto-area presenta caratteristiche particolari, qui si può riscontrare una produzione (di vino, in questo caso) di particolare pregio proprio grazie alle condizioni climatiche – che so, una brezza da o verso il fondovalle. E quando il frutto del suolo incontra l’opera dell’uomo, magari in una sotto-regione più adatta di altre, si conoscono le vette dell’artigianato.
Come la “Fanta Fede: [la] community di consumatori d’aranciata, scomunicata dal Vaticano per eresia”, del calembour di Bartezzaghi. O il “Cappelletto Rosso”, per tornare agli alimentari di Esselunga d’inizio secolo. “So che dietro a un calembour”, scrive infatti Stefano Bartezzaghi, “opera una piccola orologeria linguistica, che finge di impiegare solo la libera ispirazione dei sapienti e in realtà ha l’esattezza degli artigiani dell’arguzia”.

Artigianato culturale e ambiente/clima, dunque, più o meno favorevole al suo fiorire. Uno degli universali della cultura, sostiene la “etnografa pop” Kate Fox, è che ogni luogo in cui si beve alcool, in ogni cultura – appunto – ha un proprio “microclima sociale”: questi luoghi infatti “sono zone liminali in cui si trova un certo grado di remissione culturale – un temporaneo rilassamento o sospensione dei normali controlli e freni sociali”.
Grazie alla meritoria opera divulgatrice di Papille Clandestine [grazie, troppo buono, ndr], oggi veniamo a scoprire che questo “microclima sociale” teorizzato da Fox comprende non solo chi gusta del frutto della fermentazione ma anche chi di questa fermentazione è il primo responsabile, il micro-produttore che viene a trovarsi, in una sorta di alcolico diagramma di Venn, nell’area (topografica come ambientale, certo liminale) in cui felicemente si sovrappongono le micro-aree di chi produce una birra come la Rest in Pils, “l’affascinante goffaggine” dell’artigiano di calembours che la battezza e il “microclima sociale” spesso ricco d’arguzia dei luoghi in cui, in tutte le culture, si consumano alcolici.

Autore

Giulio Nepi

44 anni, doppio papà, si occupa da aaaaanni di comunicazione web. Genovese all’anagrafe ma in realtà di solide origini senesi, ha sposato una fiamminga francese creando così un incasinato cortocircuito di tradizioni enogastronomiche

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